Il giorno 11-7-019, il Senato ha approvato la riforma costituzionale sul taglio dei parlamentari. Lo scorso maggio lo aveva fatto la Camera.
E’ il terzo via libera. Il testo ritorna ora alla Camera per per quello che potrebbe essere l’esame definitivo del provvedimento: la discussione è prevista a settembre. A votare la riforma che prevede la diminuzione dei seggi a 400 alla Camera e a 200 al Senato sono stati in 180 (per l’approvazione serviva la maggioranza assoluta di 161 voti favorevoli).
E’ il terzo via libera. Il testo ritorna ora alla Camera per per quello che potrebbe essere l’esame definitivo del provvedimento: la discussione è prevista a settembre. A votare la riforma che prevede la diminuzione dei seggi a 400 alla Camera e a 200 al Senato sono stati in 180 (per l’approvazione serviva la maggioranza assoluta di 161 voti favorevoli).
Al voto favorevole della maggioranza M5S-Lega si è aggiunto quello di Fratelli d’Italia. Contrari il Pd, Liberi e Uguali, PiùEuropa e gli espulsi dall'M5S (50 i no in tutto), mentre Forza Italia non ha partecipato al voto. Dopo il passaggio alla Camera, (con probabile nuova approvazione) sarà possibile il Referendum Confermativo di una legge costituzionale
nel caso in cui entro tre mesi dalla pubblicazione della legge stessa,
ne facciano richiesta un quinto dei membri di una camera, oppure 500.000
elettori oppure cinque consigli regionali.
Una questa una "riforma" fortemente voluta dall'M5S che priverà molti cittadini della facoltà di essere rappresentati e sbarrerà l'accesso a Camera e Senato alle liste minori.
Ancora una volta, a giustificazione di questa scelta, si invoca un "risparmio economico" con numeri palesemente gonfiati.
Ne scrive in proposito, con un approfondimento, Il Manifesto.
Una questa una "riforma" fortemente voluta dall'M5S che priverà molti cittadini della facoltà di essere rappresentati e sbarrerà l'accesso a Camera e Senato alle liste minori.
Ancora una volta, a giustificazione di questa scelta, si invoca un "risparmio economico" con numeri palesemente gonfiati.
Ne scrive in proposito, con un approfondimento, Il Manifesto.
Il grosso guaio del parlamento
più piccolo
Al senato il penultimo passaggio delle «camerette»:
una riforma costituzionale
buona per gli slogan, pessima per la democrazia.
Con oltre un terzo di
rappresentanti del popolo in meno,
i lavori saranno più difficili e le
minoranze meno rappresentate.
E si risparmia molto meno di quanto dicono i 5
Stelle
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Con la
riforma costituzionale in arrivo, la camera dei deputati perderà quasi il 37%
dei seggi,
230 deputati su 630
© Immagine originale Lapresse
|
Che effetto
farà l’emiciclo della camera dei deputati con duecento rappresentanti del
popolo in meno? In quell’aula, negli ultimi cento anni – appena celebrati con
una mostra e un documentario sull’opera dell’architetto Ernesto Basile –
problemi con i posti a sedere ci sono sempre stati.
Ma all’opposto: bisognava
aumentarli.
Da quando la nuova aula di Montecitorio è entrata in funzione, il
20 novembre 1918, i deputati sono cresciuti di 112 unità. Erano 518 nella
legislatura cominciata il 1 dicembre 2019 – la quindicesima e ultima del regno
senza Benito Mussolini tra i banchi – sono 630 oggi.
Dal 1918 il numero dei
deputati è sempre cresciuto, con l’eccezione delle due legislature elette con
il sistema plebiscitario durante il regime fascista, quando i seggi furono
ridotti a 400.
Che è lo stesso numero di deputati proposto dalla riforma
costituzionale di 5 Stelle e Lega che oggi sarà discussa e giovedì votata dal
senato, penultimo passaggio prima del voto finale di Montecitorio e – se
qualcuno vorrà proporlo – del referendum confermativo.
Serve la maggioranza
assoluta dei componenti, 160 voti in senato che la maggioranza può raggiungere
con qualche patema d’animo, o senza nessun affanno potendo contare
sull’appoggio di Fratelli d’Italia. Dopo di che i posti a sedere bisognerà
smontarli sul serio.
Per scendere
da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi non basterà eliminare le
sedie aggiunte all’ultimo livello dell’emiciclo sia a palazzo Madama che a
Montecitorio nel 1963, quando una riforma costituzionale aumentò e stabilizzò
il numero dei parlamentari (la Costituzione nel 1948 aveva previsto una
composizione variabile, un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni
200mila).
Tanto che c’è già chi immagina una ristrutturazione “pesante” che
modifichi l’assetto ultracentenario delle aule (150 anni quella del senato)
rendendo finalmente meno strette e più comode le postazioni di lavoro degli
onorevoli.
Viceversa tribune sovradimensionate rischierebbero di cristallizzare
l’immagine di due aule semivuote, anche con deputati e senatori tutti presenti.
«Seicento
parlamentari sono più che sufficienti», sentenziava il volantino delle «Riforme
del cambiamento» diffuso dal ministro Fraccaro all’inizio del (fin qui
velocissimo) percorso istituzionale. «L’Italia – spiega – è il paese con il più
alto numero di parlamentari eletti d’Europa.
Noi li riduciamo di più di un
terzo (36,8%) e ci allineiamo col resto degli stati».
Ma «allineare» non è il
verbo corretto, meglio sarebbe stato dire che ci accodiamo.
Se infatti oggi in
Italia c’è un deputato ogni 96mila elettori, così effettivamente superando il
Regno unito (uno ogni 101mila), l’Olanda (114mila), la Francia e la Germania
(116mila), la Spagna (133mila), con la riforma avremo un deputato ogni 151mila
abitanti, diventando tutto d’un tratto il paese con il più alto rapporto tra
rappresentati e rappresentanti.
Eloquente il confronto con la prima legislatura
della Repubblica, quando la rappresentatività era due volte più forte: c’era
allora un deputato ogni 80mila abitanti. Senza contare che, come effetto
dell’abbassamento della maggiore età, se nel 1948 bastavano 50mila elettori per
eleggere un deputato, dopo la riforma ne servirebbero quasi il triplo.
L’ideale
per allontanare ancora un po’ il «popolo» dai «politici».
Eppure
Fraccaro ancora ieri spiegava che «gli interessi dei cittadini vengono prima
delle poltrone».
O come dice il volantino dei 5 Stelle «con meno poltrone c’è
più democrazia». Slogan discutibili, anche solo considerando lo sbarramento che
una riduzione così netta dei parlamentari porta con sé. Non parliamo della
soglia esplicita del 3% prevista dalla legge elettorale – che per inciso per
volontà di Lega e 5 Stelle resterà il pessimo Rosatellum – ma di una soglia
implicita e automatica legata al fatto che il numero di parlamentari da eleggere
nei collegi diminuirà sensibilmente.
Soprattutto al senato, dove la maggioranza
delle regioni non eleggerà più di quattro senatori nei collegi proporzionali.
Sarà così impossibile per le liste minori, che già sono escluse dalla corsa per
i seggi uninominali, conquistare sul campo un seggio senatoriale. Potranno solo
sperare nel riparto nazionale dei seggi, con l’effetto di ritrovarsi con un
senatore scelto in maniera imprevedibile dal micidiale flipper del Rosatellum.
Come
festeggiava già ieri il capogruppo M5S al senato, il taglio dei parlamentari
entrerà in vigore immediatamente, dalle prossime elezioni. La legge elettorale
è stata già ritoccata allo scopo, a tempo di record. Ma nel frattempo non sono
cambiati i regolamenti di camera e senato.
Dove tutte le soglie a tutela delle
minoranze sono oggi calcolate su 630 deputati e 315 senatori.
Non solo,
applicando i risultati elettorali del 2018 alla nuova camera bonsai, è facile
calcolare che il più piccolo partito sopra la soglia di sbarramento – Leu – avrà
meno deputati di quelli strettamente necessari a partecipare a tutte le
commissioni permanenti. Che sono quattordici, sia alla camera che al senato.
Oggi a Montecitorio il regolamento esclude che un deputato possa far parte di
due commissioni, al senato è consentito ma fino a un massimo di tre
commissioni. In entrambi i casi, i rappresentanti del partito più piccolo non
sarebbero sufficienti. Democrazia, ma anche «efficienza», altra parola slogan
ricorrente, sono lontani. Le commissioni, infatti, possono lavorare (e lavorano
abitualmente) con un terzo dei commissari presenti. In futuro il lavoro
referente per l’aula si troveranno a farlo cinque soli senatori, compresi
presidente, vicepresidenti e segretari della commissione.
Infine i
costi, l’argomento più usato da leghisti e grillini.
In questo anticipati da un
manifesto fatto stampare da Renzi durante la campagna per il referendum
costituzionale: «Basta un Sì per cancellare poltrone e stipendi». «Cinquecento
milioni risparmiati in una legislatura» assicurano adesso i 5 Stelle, che la
volta scorsa contestavano gli annunci di Boschi, identici e basati su un numero
simile di indennità da cancellare. Ma se si prendono gli ultimi bilanci interni
della camera e del senato si possono prevedere risparmi più contenuti.
Per 345
assegni mensili in meno, tra camera e senato, lo stato risparmierebbe 90
milioni l’anno, al lordo delle tasse che non potrebbe più incassare. Al netto
il risparmio si aggirerebbe sui 70 milioni l’anno, che per cinque legislature
sono molti meno del mezzo miliardo stampato sui volantini.
Senza contare che
meno rappresentanti del popolo, per fare lo stesso lavoro, avranno
probabilmente bisogno di un maggiore aiuto. Nessuna sorpresa, allora, se
aumenterà la spesa per consulenti e per il personale. Quest’ultima già molto
superiore al «costo» dei parlamentari.