E' un agosto caldo, come è caldo da più tempo il problema al centro dell'attenzione e degli atti del governo italiano nonchè dei commenti e delle storture propinate da certa stampa e dai social: quello dei richiedenti asilo, dei profughi, dei migranti, insomma di quei disperati che tentano di arrivare con mezzi di fortuna sulle coste italiane, sperando d'essere intercettati quanto prima da un'imbarcazione e tratti a bordo ed in salvo.
Siamo ormai in una fase dove, per accontentare la pletoria degli urlatori nostrani, il Governo italiano s'è lanciato in una serie di spregiudicati e pericolosi provvedimenti e azioni, tutte con un solo scopo: tenere lontani dall'Italia questi disperati e, con il supporto della "Guardia Costiera" libica, respingerli e confinarli in Libia negli orrendi centri di detenzione dove vengono raccolti.
Eppure, formalmente per "combattere i trafficanti", sono stati stanziati fondi indirizzati all'autorità libica che però autorità non è visto che il governo di Serraj controlla solo una piccola porzione del territorio mentre nel resto della Libia imperversano milizie locali, jiahdisti, gruppi dell'ISIS o il secondo governo, quello di Tobruk, quello di Haftar.
Ma non è solo questo.
Anche contro le ONG che operano nel mediterraneo con funzioni di salvataggio, s'è alzata una canea mediatica volta e screditarne l'attività, seguita da una richiesta alle stesse di aderire ad un "regolamento" che ne limita pesantemente le possibilità d'intervento, vietando il trasbordo delle persone soccorse su natanti più capienti e pretendendo un controllo a bordo con personale di polizia anche armato.
Chi non ha ancora accettato di firmare "il regolamento" è nei fatti messo in condizioni di non poter più operare adeguatamente nel salvataggio di vite umane.
In questi giorni, l'asticella si è alzata ancora di più, con un avviso di garanzia d'indagine in corso su un'ipotesi d’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a carico di Don Mussie Zerai, prete cattolico eritreo che da tempo opera con la sua Agenzia giornalistica per informare sulla situazione dell'Africa, dandosi da fare anche per l'attivazione di corridoi umanitari.
Abbiamo, purtroppo, la certezza che la politica del mostrarsi forti e decisi non sia tanto indirizzata a colpire i trafficanti di esseri umani e gli scafisti, quanto ad eliminare dallo scenario chi ha messo al centro del suo agire il soccorrere chi si trova in difficoltà, identificandolo come un osservatore e un operatore scomodo.
Pare essere questo l'approcio ipocrita scelto per evitare altri arrivi in Italia.
Con buona pace per il Diritto Internazionale si consegnano migliaia di esseri umani al rientro
forzato nel caos della Libia, paese che non ha mai siglato la Convenzione di
Ginevra e dove le violazioni dei Diritti Umani sono quotidiane.
Don Mussie, il numero verde che salva la vita
Alessandro Leogrande Edizione del 10.08.2017
La notizia secondo cui la Procura di Trapani, nell’ambito
dell’inchiesta sulla ong Jungend Rettet, starebbe indagando sull’operato
di don Mussie Zerai, è la perfetta cartina al tornasole di un’estate in
cui le azioni di soccorso nel Mediterraneo sono oggetto di una violenta
campagna di delegittimazione.
Dopo la strage del 3 ottobre del 2013, quando un barcone stracolmo quasi
unicamente di eritrei si rovesciò a poche centinaia di metri dall’isola
di Lampedusa, don Mussie fu tra le persone più attive nel ricostruire
quanto accaduto, e in particolare le cause e il motivo del viaggio di
chi era andato incontro a una morte tanto assurda.
Da anni ormai don Mussie, prete cattolico eritreo trasferitosi in
Italia e poi in Svizzera, è un’antenna sensibile sull’esodo dal Corno
d’Africa e dal suo paese di origine, tanto da aver fondato un’agenzia
giornalistica, habeshia.blogspot.it, che è una delle migliori fonti di informazione sui viaggi da quell’area del continente africano.
Nel tempo si è sparsa la voce che il numero di telefono di don Mussie
ce l’hanno tutti. Lo si trova scritto sui cassoni dei tir che
attraversano il deserto, sui muri delle prigioni libiche, negli stanzoni
angusti in cui i profughi sono spesso ammassati lungo la tratta, tanto
che si è propagato capillarmente, di mano in mano, di bocca in bocca,
come una sorta di «numero verde». Già due anni fa era possibile
calcolare che almeno cinquemila persone sono state salvate nel
Mediterraneo per il semplice fatto di aver composto – poco prima di
naufragare – il numero di don Zerai. Era stato poi il prete ad avvisare
la Guarda costiera o la Marina militare.
Questa storia potrebbe sembrare una «leggenda metropolitana», ma chi
scrive può dire di averla verificata con mano. Ho passato alcuni giorni
con don Zerai e ho capito immediatamente, come chiunque abbia trascorso
un po’ di tempo con lui, che quel cellulare che squillava in
continuazione era l’unica fonte di salvezza per chi, a migliaia di
chilometri di distanza, stava per morire. Proprio perché antenna
sensibile sull’esodo, Zerai è stato tra i primi a rendersi conto di due
tra i tanti «effetti collaterali» dell’esodo: l’indotto dei sequestri
dei profughi che ha avuto il suo epicentro nel Sinai; l’impiego dei
profughi che attraversano la Libia – da parte di molte fazioni in lotta –
come muli da soma per portare mine e munizioni lungo il fronte.
Per la sua azione di soccorso e controinformazione, don Mussie è
divenuto presto un uomo molto odiato. Odiato dalla Lega, da Casa Pound e
da una miriade di blog neofascisti, che lo additano come uno dei
fautori della «grande invasione». Odiato dal regime eritreo, che vede in
lui un traditore che alimenta l’emorragia dei giovani dal paese (e si
sa quanto ogni totalitarismo, specie quanto sorge sulle ceneri di una
rivoluzione, scorga nell’esodo di massa una sconfessione delle proprie
fondamenta).
In una singolare sovrapposizione dei punti di vista, a tale fuoco
incrociato si aggiunge ora l’inchiesta della procura di Trapani. Il
«numero verde» diventa oggetto di reato, perché – e qui il ragionamento
della procura finisce per essere singolarmente il medesimo di CasaPound o
del regime eritreo – l’esodo non è generato dalle dittature o dagli
sconquassi politici dall’altra parte del mare (in Eritrea, in Somalia o
in Gambia), bensì da chi favorisce il soccorso in alto mare di tutti
coloro i quali si mettono in viaggio.
In questo radicale rovesciamento delle responsabilità, l’opera di don
Mussie Zerai, al pari di quanti hanno provato a costruire ponti nel
mezzo del disastro, è considerata l’anomalia da normalizzare.
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