L'inchiesta "Mafia Capitale" della Procura di Roma ha scoperchiato l'ennesimo verminaio di questo povero paese, balzato al primo posto in Europa nel rapporto Trasparency International per quanto riguarda l'indice della CORRUZIONE percepita.
Una corruzione e un malaffare che in quel di Roma coinvolge personaggi della destra neofascista, della malavita, gestori di cooperative sociali, funzionari collusi, ex assessori della giunta capitolina e presidenti di consiglio targati Pd.
C'è un aspetto ODIOSO e particolarmente DISGUSTOSO tra i "rami d'affari" di questa cupola. Quello sulla gestione delle "emergenze" Rom e Sinti e quello sui rifugiati.
Hanno "lucrato" anche su questo, aumentando a dismisura l'inserimento di persone nei campi e nei centri gestiti dalle cooperative legate a questo malaffare, immaginatevi con quale servizi poi effettivamente resi e con quali conseguenti tensioni sul territorio .
Un ciclo che in quel di Roma non ha fatto altro che alimentare poi dimostrazioni di stampo razzista e la becera campagna della destra xenofoba contro i campi e i centri di prima accoglienza.
Questo è il nostro paese.
Sotto, due articoli de Il Manifesto che illustrano con chiarezza la vicenda.
Mafia capitale dell’emergenza
Roma. Il
«pericolo» rom, l'allarme immigrati e gli sbarchi di minori non
accompagnati dal Nord Africa. Occasioni ben colte dal sistema di
corruzione politico-criminale ricostruito nell'inchiesta «Mondo di
mezzo».Dai «campi nomadi» ai centri di accoglienza: il giro d'affari dei
solidalizi «mafiosi» indagati dalla procura di Pignatone. E gli enti
che si sono arricchit.
«Lo sai quanto ci guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga
rende meno», dice Salvatore Buzzi, presidente della Cooperativa
29 giugno (aderente alla LegaCoop), durante una telefonata
intercettata dai Ros nell’ambito dell’inchiesta sulla «mafia
capitale». Poi, in un’altra conversazione: «Tutti i soldi utili li
abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli
immigrati». Nell’ordinanza di arresto firmata dal Gip Flavia
Costantini si riportano i contatti dei sodali di Buzzi con Emanuela
Salvatori, responsabile rom e sinti del V Dipartimento del
Campidoglio.
Gli investigatori in più parti riferiscono «la capacità» dei
sodalizi indagati «di interferire nelle decisioni dell’Assemblea
Capitolina in occasione della programmazione del bilancio
pluriennale 2012/2014 e relativo bilancio di assestamento di Roma
Capitale, avvalendosi degli stretti rapporti stabiliti con
funzionari collusi dell’amministrazione locale, al fine di ottenere
l’assegnazione di fondi pubblici per rifinanziare “i campi nomadi”,
la pulizia delle “aree verdi” e dei “Minori per l’emergenza Nord
Africa”, tutti settori in cui operano le società cooperative di
Salvatore Buzzi».
E in effetti è sulle «emergenze», lo sappiamo — in questo caso
rom, rifugiati e minori non accompagnati, altre volte sono state le
calamità naturali — che si costruisce la fortuna della
criminalità organizzata. Non a caso il 21 maggio 2008, l’allora
premier Silvio Berlusconi firmò il decreto per dichiarare lo «stato
di emergenza in relazione agli insediamenti di comunità nomadi»
che venne poi prorogato fino a tutto il 2011. Ed è la Capitale il
laboratorio per la realizzazione del “sistema campi”, più volte
stigmatizzato dalle istituzioni europee.
Fu «proprio nel triennio 2009–2011 che la giunta Alemanno —
racconta Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio —
spese, per la gestione degli 11 insediamenti istituzionali nei
quali vivono circa 5.000 degli 8.000 rom presenti a Roma e per le 54
azioni di sgombero forzato che hanno coinvolto circa 1.200 rom, oltre
34 milioni di euro l’anno». Un conto presto fatto se si aggiunge alla
gestione corrente del “sistema campi”, che costa al Campidoglio
circa 24 milioni l’anno, i 32 milioni reperiti dal Viminale per
accompagnare il triennio dell’emergenza, durante il quale tutto era
permesso, e i soldi venivano erogati ad affidamento diretto, senza
bandi di concorso. «In realtà è prassi anche della gestione corrente
dei campi», continua Stasolla.
Prendiamo per esempio il “villaggio della solidarietà” di
Castel Romano, il più grande di Roma, quello che tra il 2010 venne
ampliato per accogliere le famiglie rom sgomberate dai “campi
tollerati” di La Martora e Tor de’ Cenci. E per il quale, secondo
l’ordinanza di arresto, Buzzi avrebbe chiamato il Comune per chiedere
«l’allargamento dell’allargamento». Secondo il dossier redatto dalla
“21 luglio”, per ospitare 989 abitanti sono stati spesi nel 2013
(cifra simile anche negli anni precedenti) 5.354.788 euro, di cui il
70,7% per la gestione, il 17,1% per la sicurezza, il 12% per la
scolarizzazione e zero per l’inclusione sociale. Il 93,5% dei fondi
sono stati erogati in affidamento diretto ai 16 soggetti operanti.
Ma è Eriches (l’Ati della cooperativa di Buzzi, la 29 giugno) che
si aggiudica la maggior parte del malloppo: il 36,1% dei fondi.
Complessivamente, per segregare 4391 rom negli 8 villaggi
attrezzati, si sono spesi 16,4 milioni di euro l’anno; per
concentrare 680 persone nei 3 «centri di raccolta rom», i romani
hanno pagato altri 6,2 milioni circa; e per allontanare 1231 persone
nei 54 sgomberi forzati del 2013 se ne sono andati altri 1,5 milioni.
L’altro grande affare è quello dei rifugiati e richiedenti asilo,
per ciascuno dei quali gli enti gestori che vincono i bandi emessi dal
Viminale attingendo ai fondi Sprar (il Sistema di protezione per
richiedenti asilo) percepiscono 35 euro al giorno. Secondo
l’inchiesta di Pignatone, Luca Odevaine, il capo gabinetto di
Veltroni, si sarebbe adoperato (ma questo non è un crimine) per
orientare i flussi di smistamento sul territorio italiano dei
rifugiati facendo levitare da 250 a 2500 i posti assegnati a Roma.
Ma è sui minori non accompagnati che il «Mondo di mezzo», secondo
gli inquirenti, concentra maggiormente le attenzioni. Ovvio,
perché per ogni ragazzo straniero il budget erogato sale a circa 50
euro al giorno. Durante l’«emergenza Nord Africa» del 2011, a Roma
arrivarono circa duemila minori, anche se «a volte, quando
arrivavano nei centri, ci accorgevamo che in realtà erano adulti
e dovevamo rifiutarli», racconta Gabriella Errico, presidente della
cooperativa Un sorriso che gestisce il centro di Tor Sapienza
balzato agli onori delle cronache. L’assegnazione della gestione
delle strutture, in quel periodo, veniva fatta «solo ed
esclusivamente dal Comune» senza bandi.
«Re incontrastato dell’assegnazione dei progetti per l’accoglienza
rifugiati e minori è il consorzio Ericles che fa capo alla Coop. 29
giugno — racconta Claudio Graziano, responsabile rifugiati
dell’Arci — seguita dalla Domus caritaris, del Vicariato e da
Axilium e Arciconfraternita, eredi della vecchia La Cascina, di
Comunione e liberazione». Tutti gli altri enti gestori arrivano
largamente dopo. «Anche se — aggiunge Graziano — districarsi nel
ginepraio di enti che gestiscono i centri per minori
è difficilissimo perché cambiano continuamente nome».
Non solo: tra centri affidati dagli enti locali con i fondi Sprar
e quelli aperti dalla prefettura nei periodi di “emergenza” «nessuno
sa bene quante siano le risorse e come vengono distribuite». «In
tanti anni che lo chiediamo — conclude Graziano — non siamo mai
riusciti ad ottenere un tavolo di coordinamento di questi servizi
di accoglienza».
Sequestrati beni per 200 milioni.
Le indagini puntano alla Regione
Mafia capitale. Decisivo per i pm il ruolo di Carminati. Alemanno: «Ho sbagliato dal punto di vista umano»
Massimo Carminati |
Ieri mattina, a Regina Coeli, sono cominciati gli
interrogatori. Nessuno dei 14 indagati sentiti dai magistrati,
tranne l’ex ad dell’Ama Franco Panzironi, ha aperto bocca. Lo stesso
Panzironi non è andato oltre il ribadire la propria innocenza. Ma
la vicenda è appena all’inizio. Filtrano voci su una nuova e imminente
ondata di iscrizioni nel registro degli indagati, e questa volta
toccherebbe alla Regione Lazio.
La magistratura, intanto, ha disposto il sequestro dei beni di alcuni indagati: robetta da 204 milioni. Macchine, terreni, appartamenti, negozi, quote societarie: di tutto si può dubitare tranne che del rapido arricchimento dei presunti aderenti all’organizzazione ribattezzata dagli inquirenti «Mafia Capitale». Una parte di quei capitali, 40mila euro, sarebbe finita anche alla Fondazione Nuova Italia dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è autosospeso da tutte le cariche in Fratelli d’Italia e al Tg1 ha dichiarato: «Sicuramente ho sbagliato a sottovalutare la componente umana, non ho dato la giusta attenzione alla scelta della squadra, mi assumo la responsabilità politica». Ma è solo una delle onde che si avviano a sommergere la politica romana, e neppure la più grossa. Nell’epicentro del terremoto c’è il Pd.
Il M5S chiede lo scioglimento del Comune, la presidente della Camera Laura Boldrini esprime«sdegno totale». L’esponente del Pd della capitale Roberto Morassut vuole «l’azzeramento del Pd romano». Il sindaco Ignazio Marino promette che «con i cittadini onesti Roma cambierà davvero». Ma non sono gli strepiti, questi e molti altri, a restituire il senso di quanto profonda sia la scossa. Sono i fatti in sé, senza bisogno di commenti.
L’elemento da alcuni punti di vista più inquietante dell’intera vicenda è la facilità con cui Massimo Carminati è passato dal controllo quasi totale sugli appalti e sulle nomine nel corso dell’era Alemanno alla conferma di un potere quasi identico con i successori.
Stando a quanto la magistratura ha deciso di rendere pubblico, proprio del potere personale di Carminati si tratta. Più che di «Mafia Capitale» si dovrebbe infatti parlare di «Carminati Capitano». Nella ricostruzione degli inquirenti, l’ex «Nero» della Magliana non è solo «la figura apicale», ma il perno intorno a cui ruota ogni cosa, tutt’al più in tandem con Salvatore Buzzi, l’ex detenuto comune (omicidio colposo ai danni della consorte) che aveva creato un impero nelle cooperative sociali, a partire da quella cooperativa «29 giugno» fortemente sponsorizzata e poi protetta dall’ex assessore regionale al Bilancio Angiolo Marroni, Pd (non coinvolto, va sottolineato, nell’inchiesta in corso). L’elemento coercitivo in base al quale la procura di Roma contesta l’associazione mafiosa ex 416bis è costituito, a conti fatti, solo dalla presenza di Carminati, sufficiente, scrivono gli inquirenti, a incutere terrore. In realtà di episodi di violenza, per quanto riguarda il «mondo di sopra», non ne risultano quasi, e anche le minacce sono limitate. A renderle temibili è solo il fatto che provengano da tanto criminale.
Almeno stando a quel che se ne sa al momento, l’aspetto dell’associazione mafiosa è davvero fragile, basato appunto all’80% e oltre sulla partecipazione, anzi sulla direzione, di Carminati. Con tutta la fiducia possibile nei togati, è un po’ poco. Soprattutto, la deflagrante accusa di aver costituito una Cosa Nostra romanesca rischia di non mettere nel dovuto risalto quel che l’inchiesta e le intercettazioni raccontano del livello, che dire basso è ancora niente, raggiunto dalla politica a Roma, come probabilmente in molte altre importanti realtà locali. Non a caso una quantità di vicende affrontate dagli inquirenti è citata nelle carte per dare un’idea della situazione, ma senza che sia stato raccolto il materiale probatorio necessario per procedere.
A leggere le carte dell’inchiesta non sembra tanto di trovarsi di fronte al Padrino quanto a una versione all’amatriciana, ma non meno ignobile, di House of Cards. Pressioni, manovre, anche minacce, corruzione, condizionamenti di ogni tipo per piazzare le persone ingiuste al posto giusto. In realtà, più che ai suoi trascorsi criminali con la Magliana, sembra che Carminati debba il potere e l’influenza di cui gode a quelli di neofascista noto e stimato in quell’ambiente. Dicono ad esempio che proprio Carminati abbia offerto la propria alta garanzia a sostegno di Riccardo Mancini, l’ex ad di Eur spa, inviso ai suoi ex camerati arrivati al potere a Roma per alcune delazioni e accuse ai tempi degli spari. E ancora Carminati avrebbe speso il suo persuasivo carisma per convincere l’ex capo della segreteria di Alemanno, Lucarelli, a confermare il ruolo della cooperativa di Buzzi «29 giugno», inizialmente destinata a essere affondata in quanto eredità della passata amministrazione di centrosinistra.
Ma qualunque fosse il fondamento del potere di Carminati è un fatto che, dopo aver trasformato gli appalti romani (e non solo) in una fonte inesauribile di arricchimento con la giunta Alemanno, il gruppo abbia proseguito col vento in poppa anche con l’amministrazione di centrosinistra. Lo ha fatto, se le accuse saranno confermate, molto più comprando che minacciando. In diverse intercettazioni Buzzi parla senza mezzi termini di Mirko Coratti, presidente dell’assemblea capitolina, come di un dipendente a libro paga.
Sarà la magistratura a stabilire quanto il malaffare sia permeato all’interno del Campidoglio che però, oggi, appare come una fogna a cielo aperto.
La magistratura, intanto, ha disposto il sequestro dei beni di alcuni indagati: robetta da 204 milioni. Macchine, terreni, appartamenti, negozi, quote societarie: di tutto si può dubitare tranne che del rapido arricchimento dei presunti aderenti all’organizzazione ribattezzata dagli inquirenti «Mafia Capitale». Una parte di quei capitali, 40mila euro, sarebbe finita anche alla Fondazione Nuova Italia dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è autosospeso da tutte le cariche in Fratelli d’Italia e al Tg1 ha dichiarato: «Sicuramente ho sbagliato a sottovalutare la componente umana, non ho dato la giusta attenzione alla scelta della squadra, mi assumo la responsabilità politica». Ma è solo una delle onde che si avviano a sommergere la politica romana, e neppure la più grossa. Nell’epicentro del terremoto c’è il Pd.
Il M5S chiede lo scioglimento del Comune, la presidente della Camera Laura Boldrini esprime«sdegno totale». L’esponente del Pd della capitale Roberto Morassut vuole «l’azzeramento del Pd romano». Il sindaco Ignazio Marino promette che «con i cittadini onesti Roma cambierà davvero». Ma non sono gli strepiti, questi e molti altri, a restituire il senso di quanto profonda sia la scossa. Sono i fatti in sé, senza bisogno di commenti.
L’elemento da alcuni punti di vista più inquietante dell’intera vicenda è la facilità con cui Massimo Carminati è passato dal controllo quasi totale sugli appalti e sulle nomine nel corso dell’era Alemanno alla conferma di un potere quasi identico con i successori.
Stando a quanto la magistratura ha deciso di rendere pubblico, proprio del potere personale di Carminati si tratta. Più che di «Mafia Capitale» si dovrebbe infatti parlare di «Carminati Capitano». Nella ricostruzione degli inquirenti, l’ex «Nero» della Magliana non è solo «la figura apicale», ma il perno intorno a cui ruota ogni cosa, tutt’al più in tandem con Salvatore Buzzi, l’ex detenuto comune (omicidio colposo ai danni della consorte) che aveva creato un impero nelle cooperative sociali, a partire da quella cooperativa «29 giugno» fortemente sponsorizzata e poi protetta dall’ex assessore regionale al Bilancio Angiolo Marroni, Pd (non coinvolto, va sottolineato, nell’inchiesta in corso). L’elemento coercitivo in base al quale la procura di Roma contesta l’associazione mafiosa ex 416bis è costituito, a conti fatti, solo dalla presenza di Carminati, sufficiente, scrivono gli inquirenti, a incutere terrore. In realtà di episodi di violenza, per quanto riguarda il «mondo di sopra», non ne risultano quasi, e anche le minacce sono limitate. A renderle temibili è solo il fatto che provengano da tanto criminale.
Almeno stando a quel che se ne sa al momento, l’aspetto dell’associazione mafiosa è davvero fragile, basato appunto all’80% e oltre sulla partecipazione, anzi sulla direzione, di Carminati. Con tutta la fiducia possibile nei togati, è un po’ poco. Soprattutto, la deflagrante accusa di aver costituito una Cosa Nostra romanesca rischia di non mettere nel dovuto risalto quel che l’inchiesta e le intercettazioni raccontano del livello, che dire basso è ancora niente, raggiunto dalla politica a Roma, come probabilmente in molte altre importanti realtà locali. Non a caso una quantità di vicende affrontate dagli inquirenti è citata nelle carte per dare un’idea della situazione, ma senza che sia stato raccolto il materiale probatorio necessario per procedere.
A leggere le carte dell’inchiesta non sembra tanto di trovarsi di fronte al Padrino quanto a una versione all’amatriciana, ma non meno ignobile, di House of Cards. Pressioni, manovre, anche minacce, corruzione, condizionamenti di ogni tipo per piazzare le persone ingiuste al posto giusto. In realtà, più che ai suoi trascorsi criminali con la Magliana, sembra che Carminati debba il potere e l’influenza di cui gode a quelli di neofascista noto e stimato in quell’ambiente. Dicono ad esempio che proprio Carminati abbia offerto la propria alta garanzia a sostegno di Riccardo Mancini, l’ex ad di Eur spa, inviso ai suoi ex camerati arrivati al potere a Roma per alcune delazioni e accuse ai tempi degli spari. E ancora Carminati avrebbe speso il suo persuasivo carisma per convincere l’ex capo della segreteria di Alemanno, Lucarelli, a confermare il ruolo della cooperativa di Buzzi «29 giugno», inizialmente destinata a essere affondata in quanto eredità della passata amministrazione di centrosinistra.
Ma qualunque fosse il fondamento del potere di Carminati è un fatto che, dopo aver trasformato gli appalti romani (e non solo) in una fonte inesauribile di arricchimento con la giunta Alemanno, il gruppo abbia proseguito col vento in poppa anche con l’amministrazione di centrosinistra. Lo ha fatto, se le accuse saranno confermate, molto più comprando che minacciando. In diverse intercettazioni Buzzi parla senza mezzi termini di Mirko Coratti, presidente dell’assemblea capitolina, come di un dipendente a libro paga.
Sarà la magistratura a stabilire quanto il malaffare sia permeato all’interno del Campidoglio che però, oggi, appare come una fogna a cielo aperto.
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